Covid-19 e popolazioni indigene: il prezzo più caro della pandemia sarà pagato dalle società tradizionali?


Dall’Amazzonia la notizia della morte per coronavirus di Paulinho Paiakan, capo del popolo indigeno Kayapó, ci offre uno spunto di riflessione sull’impatto che la pandemia può avere sulle popolazioni indigene. Dopo deforestazione e cambiamenti climatici, ora la loro sopravvivenza è messa a rischio dall’epidemia di Sars-Cov2

Paulinho Paiakan ha dedicato tutta la sua vita alla difesa della sua Amazzonia, costruendo alleanze in tutto il mondo tra popolazioni indigene per preservarne la casa e la sopravvivenza stessa. La notizia della sua scomparsa, avvenuta il 16 giugno scorso, pone l’attenzione sulle condizioni delle società tradizionali, non solo amazzoniche, in relazione alla pandemia di covid-19.
Lo scorso giugno uno studio realizzato dal Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia brasiliana (COIAB) e dall’Istituto di Ricerca Ambientale dell’Amazzonia (IPAM) (Martha Fellows, 2020), ha evidenziato che i tassi di mortalità da Covid-19 fra i popoli indigeni del Brasile è più alto del 150% rispetto al resto della popolazione. Lo studio, basandosi sui dati dell’ultimo censimento (2012), calcola un tasso di contagio quasi doppio rispetto al resto della popolazione (+85%), con 3662 contagiati su 483000 persone e 249 decessi. In questi giorni, però, l’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB) denuncia numeri molto più alti: 501 morti e quasi 15mila persone malate.
Al mondo sono 370 milioni (dati ONU) le persone appartenenti ai popoli tradizionali che, sotto la minaccia del nuovo virus, rischiano di scomparire; secondo Survival International il numero sale a 430 milioni. Oltre alle comunità indigene dell’Amazzonia ci sono i Maasai in Kenya, gli Orang Asli in Malesia, le tribù in Indonesia, Filippine, Ecuador, Colombia, India, Canada e Australia, e sono invece circa 150 milioni le persone appartenenti ai cosiddetti “popoli tribali”. Si tratta di 5.000 comunità sparse in 70 Paesi, alcune delle quali ormai prossime all’estinzione come gli Akuntsu (4 persone), alcune più numerose e note come i Quechua (10 milioni di individui), i Nahuatl (5 milioni), gli Aymara (2 milioni). 
Un patrimonio umano che non possiamo permetterci di perdere, custodi e ultimi testimoni di un mondo a noi sconosciuto, quel “mondo fino a ieri” (Diamond, 2013) radice di ogni nostra società e del senso stesso della nostra esistenza su questo Pianeta.
Oggi le popolazioni tradizionali, consumatori poco interessanti per le economie mondiali, sono forse le vittime sacrificabili di una pandemia la cui causa scatenante – che forse ancora non vogliamo riconoscere fino in fondo – risiede nel nostro impatto sulla biodiversità.
Ed è ancora una volta l’impatto della popolazione umana “occidentale” a rappresentare il rischio più alto. Lo studio brasiliano (Martha Fellows, 2020) pone infatti fra le cause primarie degli alti livelli di contagio fra le popolazioni indigene, l’aumento dei “vettori di contaminazione esterna”: con la pandemia e il conseguente lockdown le attività dei cercatori d’oro e il disboscamento sono aumentate, complice il mancato controllo in tempi di emergenza sanitaria. Anche il sistema sanitario nei territori indigeni è sempre stato insufficiente e la mancanza dei dispositivi di protezione individuali degli stessi sanitari sta causando moltissimi contagi. In molti casi il distanziamento sociale non può essere applicato:Non si può dire a uno Yanomami di restare a casa perché gli Yanomami non hanno una casa come la intendiamo noi: vivere a stretto contatto gli uni con gli altri, dormire in cerchio senza separazione tra un’amaca e l’altra o condividere il cibo sono una necessità, l’unico modo per sopravvivere nella foresta” (Yurij Castelfranchi, professore di sociologia dell’Università Federale di Minas Gerais, Brasile – da oggiscienza, 25 giugno 2020).
Se da un lato i Governi dei territori in cui tali popolazioni abitano non sono in grado di tutelarne la salute, in molti casi sono le popolazioni stesse ad autotutelarsi scegliendo di isolarsi nelle loro terre dalle quali, in molti casi, erano stati allontanati per motivi economici. In India, ad esempio, la tribù dei Chenchu - minacciata di sfratto per far spazio alla Riserva di tigri Amrabad – si è isolata nella foresta con il benestare delle autorità. A Sumatra, i nomadi cacciatori-raccoglitori Orang Rimba sono tornati nei loro territori ancestrali, da dove erano stati cacciati per far spazio alla coltivazione della palma da olio. Mentre i Maasai in Kenya rinunciano ad alcuni riti collettivi e attività comunitarie per prevenire il contagio.
Rimane dunque l’isolamento l’unica arma di difesa dal nuovo coronavirus? Dobbiamo chiederci come possono reagire le comunità di cacciatori- raccoglitori o le popolazioni agricole poco numerose alle “malattie da affollamento”. Se per sopravvivere e riprodursi un virus necessita di un numero sufficiente di ospiti, le piccole comunità possono garantirgli la sopravvivenza? Le popolazioni numericamente ridotte potrebbero anche provocare una rapida estinzione locale del virus a causa della mancanza di soggetti da infettare per mantenere le catene di trasmissione. Non a caso le prime vere epidemie sono iniziate a partire dalla formazione delle prime società stanziali. Prima di 11000 anni fa questo tipo di malattie sembra non abbiano avuto un’ampia diffusione tra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori ma successivamente, con l’avvento dell’agricoltura e della pastorizia, le popolazioni umane hanno raggiunto la densità numerica sufficiente alla diffusione dei virus e la vicinanza sociale ha fatto il resto. Nel mondo globalizzato del XXI secolo gli agenti patogeni riescono anche a varcare i confini naturali e artificiali, fino a raggiungere le popolazioni isolate come quelle oggetto di un interessante studio (Eda Altan, 2019) pubblicato lo scorso anno su Journal of Virology. Gli autori hanno testato la presenza di diversi tipi di virus nelle mucose nasali di bambini – apparentemente sani – di tre centri della Colombia a diverso grado di isolamento per capire se questo limitasse la diffusione dei virus comuni e più ampiamente distribuiti. Gli studiosi hanno scoperto come l'isolamento non abbia ridotto la varietà delle infezioni virali e che, nonostante il loro distacco geografico, i villaggi indigeni remoti mostrano prove di una continua esposizione ai virus circolanti a livello globale.
Non è dunque possibile nemmeno per le società degli angoli più nascosti della Terra sottrarsi all’inevitabile contagio dei virus portati da quella che chiamiamo “civiltà”. Quella civiltà che, consumando inesorabilmente le risorse del Pianeta, sta indebolendo sempre di più i confini naturali che separano l’equilibrio dalla crisi, la salute dalla malattia e le nostre radici dal nostro futuro. 

Riferimenti
Diamond, J. (2013). Il mondo fino a ieri. Torino: Giulio Einaudi .
Eda Altan, J. C.-C. (2019, August). Effect of Geographic Isolation on the Nasal Virome of Indigenous Children. Journal of Virology, 93(17). doi:10.1128/JVI.00681-19
Martha Fellows, V. P. (2020). NÃO SÃO NÚMEROS, SÃO VIDAS!A ameaça da covid-19 aos povos indígenas da Amazônia brasileira. parte do projeto Amazônia Indígena - Direitos e Recursos (AIRR)e foi produzido com o apoio da USAID. Tratto da https://www.cospe.org/wp-content/uploads/2020/06/A-amea%C3%A7a-da-covid-19-aos-povos-ind%C3%ADgenas-da-Amaz%C3%B4nia-brasileira-002.pdf

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