Appassionate, preparate e determinate: sono le donne di scienza che la storia ha dimenticato. Tra di loro anche June Almeida, che nel 1966 individuò la nuova famiglia di virus
Coronavirus: forse la parola più cliccata del web in questi ultimi mesi. Prima di SARS-Cov2 in pochi però conoscevano i coronavirus. Si, “i”, non “il coronavirus”. Infatti sono una famiglia di virus ben nota al mondo scientifico, i cui più diffusi rappresentanti sono responsabili di molte malattie nei mammiferi, umani e non, come il comune raffreddore. Oggi sappiamo che la famiglia è composta da quattro generi, definiti alfa-, beta-, gamma- e delta-coronavirus. Il responsabile della malattia Covid-19 è un beta-coronavirus parente stretto dei virus della SARS (SARS-Cov) e della MERS (MERS-Cov).
I coronavirus sono noti dalla metà degli anni sessanta, quando furono osservati per la prima volta al microscopio elettronico (SEM: scanning electron microscope), grazie a una speciale tecnica analitica, la l'immunoelettromicroscopia (IEM) sviluppata della mente brillante di June Hart (che successivamente prese il cognome del marito - Enriques Almeida – e divenne nota come June Almeida).
L’intuizione geniale di June è stata usare gli anticorpi prelevati da individui infetti per circondare i virus. June capì che poteva sfruttare il funzionamento degli anticorpi per “scovare” i virus presenti nei campioni da analizzare. Gli anticorpi infatti riconoscono i virus grazie a particolari proteine, dette antigeni, presenti sulla loro superficie esterna. Questo accade perché l’antigene presente sull’organismo invasore (il virus) e l’anticorpo hanno forme complementari – “a incastro” – che corrispondono esattamente tra di loro e il riconoscimento è quindi univoco. Quando nel campione da analizzare vengono introdotte minuscole particelle ricoperte di anticorpi, queste si riuniscono attorno al virus, rendendolo visibile. Questa tecnica ha consentito ai medici di utilizzare la microscopia elettronica come mezzo per diagnosticare infezioni virali ancora sconosciute.
La scoperta
Era il 1964 e la trentaquattrenne June stava lavorando alla St. Thomas's Hospital Medical School di Londra con il dottor David Tyrrell, che dirigeva l'Unità di ricerca sul raffreddore comune. Il team di ricercatori era impegnato ad analizzare le secrezioni nasali di alcuni volontari, ma avevano notevoli difficoltà a coltivare un campione virale in particolare. Il campione chiamato B814, proveniente da un ragazzo di un collegio del Surrey che presentava i sintomi di un comune raffreddore, sembrava diverso da qualunque altro virus respiratorio conosciuto. Gli scienziati si trovavano di fronte a un nuovo tipo di virus. Isolarlo e descriverlo fu possibile grazie alla tecnica che June aveva sviluppato anni prima all’Ontario Cancer Institute di Toronto, quando viveva in Canada con il marito e il figlio. Osservando il campione, la Almeida notò un punto rotondo e grigio coperto da minuscoli raggi che formavano un alone attorno al virus, simile alla corona solare. Nasce quindi il nome “coronavirus”, successivamente accettato dalla comunità scientifica come il nome di un intero gruppo. Il riconoscimento, però, non fu immediato: il primo tentativo di pubblicazione fu rigettato con la motivazione che le immagini ottenute fossero "brutte foto di virus dell'influenza”. Le prime immagini dei coronavirus umani apparvero tre anni dopo sul Journal of General Virology. Fu June a proporre a Nature il termine "coronavirus" oggi universalmente conosciuto.
Scienziate non accademiche: June Almeida e la sua non-laurea
Anche se può sembrare incredibile, come spesso accadeva fino a pochi decenni fa alle donne, June non completò mai la sua educazione formale, non era laureata. Era una studentessa brillante, ma per poter frequentare l’università aveva bisogno di una borsa di studio, che invece non arrivò mai. A 16 anni inizia quindi a lavorare come tecnico di laboratorio presso la Royal Infirmary di Glasgow, la sua città natale, dove impara a usare i microscopi per l‘analisi di campioni di tessuto. È qui che inizia a coltivare la sua conoscenza ed è proprio grazie alla sua preparazione da autodidatta che ottiene il lavoro in Canada nel laboratorio dove sviluppa la sua innovativa tecnica analitica.
La sua mente brillante ed eclettica non si fermò alla virologia, dalla quale si ritirò nel 1985: i suoi interessi spaziarono dallo yoga, di cui divenne istruttrice, al restauro della porcellana fino all'antiquariato.
Ma prima della sua morte nel 2007, all'età di 77 anni, la Almeida lasciò un ultimo fondamentale contributo allo sviluppo della conoscenza dei virus, con il virus che – forse più di tutti prima del SARS Cov-2 – ha colpito duramente la nostra specie: le prime immagini di alta qualità dell'HIV sono infatti state ottenute grazie alla preziosa consulenza da lei prestata al St. Thoma’s.
Ancora oggi le sue tecniche per l’identificazione dei virus sono utilizzate dagli scienziati di tutto il mondo. E, seppure il suo nome sia ancora noto a pochi, il contributo che la Almeida ha dato alla ricerca scientifica è stato fondamentale. Mentre stava osservando i suoi campioni al microscopio elettronico di certo non pensava che avrebbe scoperto una nuova famiglia di virus. Così come tutte le più grandi scoperte della scienza anche questa è avvenuta (quasi) per caso: ecco perché è importante dare alla ricerca il giusto spazio nelle politiche dei Paesi e nella distribuzione delle risorse. La scienza non è certezza, come qualcuno sottolinea a gran voce, la scienza è curiosità. È volgere il proprio sguardo lontano, mettendo in discussione la nostra conoscenza, cercando nuove soluzioni.
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