La Terra senza di noi per il lockdown: la natura che si riprende i suoi spazi è un’immagine suggestiva, ma corrisponde alla realtà?
Un puma (Puma concolor) si aggira indisturbato nel centro deserto di Santiago del Cile, coyote (Canis latrans) cercano cibo nelle strade di San Francisco, mentre in Galles le capre provenienti dal parco naturale del promontorio di Great Orme passeggiano per le strade della cittadina di Llandudno. Anche nel nostro Paese c’è un continuo susseguirsi di avvistamenti “wild” in pieno centro cittadino: delfini (Tursiops truncatus) al porto di Trieste, un istrice (Histrix cristata) in una piazza del centro a La Spezia, caprioli (Capreolus capreolus) e cinghiali (Sus scrofa) liberi di scorrazzare nelle strade. Molti degli avvistamenti testimoniati sui social in questi giorni si sono rivelati dei fake: o perché avvenuti in un altro luogo o perché in un altro momento. Altri sono autentici, ma avvenivano anche prima del lockdown: in città come Genova, ad esempio, la presenza dei cinghiali non è affatto un’eccezione.
L’immagine della natura selvaggia che torna e si riprende i suoi spazi è suggestiva e consolatoria: ci soddisfa di quel bisogno di “straordinario” a cui oggi tanto aneliamo dalle nostre finestre. Queste “visite” sembrano raccontare di come la nostra assenza renda possibile un ritorno all’origine dal sapore bucolico, ma la realtà è un po’ più complessa e il perché gli animali si avvicinino ai centri abitati può avere ragioni molto differenti. Il Pianeta è tutt’altro che privo della nostra presenza e gli animali selvatici in realtà non sono arrivati da così lontano. Quindi dov’erano prima? O forse, la domanda più corretta è: “dove eravamo noi?”
Distratti dalla freneticità delle nostre vite, non ci accorgevamo della loro presenza poco distante dalle nostre case e non abbiamo avuto il tempo di osservare quegli animali che di fatto vivono nelle nostre città tutto l’anno. Gli scienziati chiamano sinantropiche queste specie che si sono adattate alla perfezione all’ambiente urbano, ne sfruttano le caratteristiche a loro congeniali e non necessitano di tornare nella natura selvaggia. Un caso tipico è il merlo (Turdus merula), il cui habitat naturale è rappresentato dalle foreste ma che, già a partire dal XIX secolo, ha iniziato a frequentare gli spazi cittadini del nord Europa con un’espansione massima il secolo scorso insieme a colombo domestico (Columba livia) e passeri.
Si chiama inurbamento ed è il fenomeno, conosciuto da decenni, per cui alcuni animali selvatici possono occupare i centri urbani. Riguarda in particolare specie dalla spiccata duttilità ecologica come ricci (Erinaceus europaeus), volpi (Vulpes vulpes) e numerose specie di uccelli, e comprende non solo le specie “cittadine”, ma anche quelle specie che possono sfruttare gli ambienti artificiali per alcune delle loro attività giornaliere o in alcune fasi della vita. Infatti, contrariamente alla convinzione comune, le città possono essere adatte alla sopravvivenza e spesso rappresentano dei veri e propri “surrogati” degli ambienti naturali. Ne è un celebre esempio il falco pellegrino (Falco peregrinus) che nidifica sul Pirellone a Milano.
I centri urbani offrono molti nascondigli, hanno temperature più miti grazie agli impianti di riscaldamento e al cemento, forniscono cibo facile (come i rifiuti) e le ore di luce sono maggiori. A tutto questo dobbiamo aggiungere che molte specie negli ultimi decenni sono in ripresa, grazie alle leggi di protezione della fauna (Legge 157/92; Direttiva 92/43/CEE; Direttiva 2009/147/CE) e, con l’urbanizzazione che avanza inesorabilmente, il risultato è stata la compenetrazione tra “wild” e “urban”.
Siamo abituati a concepire le nostre città come ambienti “biologicamente deserti”, eppure possono invece essere considerate veri e propri “ecosistemi urbani” che, a differenza di quelli naturali (come una foresta per esempio), non sono autonomi ma dipendono dalle risorse della campagna. I confini stessi delle città sono sfumati: dal secondo dopoguerra la crescita urbanistica incontrollata (e disordinata) ha portato alla sovrapposizione tra ambiente cittadino e naturale portando a ciò che sarebbe più corretto definire un “gradiente urbano” piuttosto che un confine vero e proprio (Tomasinelli 2014). Ecco che, a queste condizioni, le probabilità di “incontri selvaggi” aumentano e, tra le maglie allargate di questi confini sfumati, possiamo imbatterci in qualche animale che ha perso la bussola - soprattutto se il suo areale, ovvero la zona in cui vive una determinata specie, è ampio ed è stato frammentato dall’espansione delle nostre città.
Questa frammentazione ha portato all’interruzione dei collegamenti tra le diverse aree, fondamentali soprattutto per quelle specie che utilizzano ampi areali, in particolare predatori e grandi mammiferi. Questo costringe le specie a distribuirsi in modo discontinuo rispetto alle potenzialità ambientali e le strade, le ferrovie, gli abitati diventano delle barriere, o meglio dei “filtri”, capaci di influenzarne in modo significativo la distribuzione. Per rendere loro possibile il passaggio da un’area all’altra, qualora ci siano barriere antropiche, sono state create delle vere e proprie “autostrade della natura” capaci di sorpassare questi ostacoli. In tutto il mondo esistono oggi dei corridoi ecologici, ossia zone di ripristino di habitat tra di loro interconnessi, che permettono lo spostamento della fauna.
Non è dunque così eccezionale fare questo tipo di incontri e in queste settimane sicuramente è molto più probabile visto l’allentamento del nostro “disturbo”: la minore presenza di automobili, la diminuzione del rumore rendono possibile ai nostri vicini di casa qualche esplorazione urbana più frequente, rendendo più ampi gli spostamenti degli animali e influendo sugli orari nei quali si muovono e si avvicinano ai centri cittadini.
A noi due mesi di isolamento sociale sembrano infiniti, ma la natura ha tempi ben diversi e per un vero processo di rewilding non sarebbero sufficienti. È molto probabile che al nostro “ritorno” gli effetti positivi di questo stop (come abbiamo visto, anche la diminuzione di alcuni inquinanti in atmosfera) non saranno duraturi, almeno al di fuori di noi. Quello che possiamo sperare è che le riflessioni a cui siamo spinti in questo momento lascino un segno dentro noi stessi portandoci a riscoprire la lentezza e il rispetto per la natura, di cui noi non siamo altro che una piccolissima parte.
Riferimenti
A. Mustoni, F. Zibordi, M. Cavedon, M. Armanini. I Grandi Mammiferi in Trentino: corrodoi faunistici e investimenti stradali. Gruppo di Ricerca e Conservazione dell’Orso Bruno, s.d.
F. Tomasinelli. Vado a vivere in città. Gavi (Alessandria): Piviere Edizioni, 2014.
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